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Solange – A Seat At The Table

Simone Cazzaniga recensisce A Seat At The Table, ultimo album di Solange Knowles.

Non può trattarsi di una semplice coincidenza se in famiglia ti ritrovi con due superstars. Eredità genetica o talento appreso? Forse entrambi. Di chi parliamo? Stiamo parlando della famiglia Knowles, che, visti i risultati, sembra interpretare al meglio tutte e due le teorie. Se il primo pensiero nel leggere questo cognome ci conduce a Beyoncé, la regina black del pop per eccellenza, sappiate che la signora Carter ha una sorella minore che sta a sua volta incantando pubblico e critica. Solange, questo il suo nome di battesimo, si è guadagnata il rispetto di tutti, non solo per aver malmenato il povero cognato Jay-Z, ma anche per aver dimostrato con i suoi due precedenti album, Solo Star (2003) e Sol-Angel and the Hadley St. Dreams (2008), di sapere cantare, scrivere e produrre e di voler continuare a farlo con grandissimo stile ed arte musicale. Senza per forza tampinare la sorella, Solange sta riuscendo a tracciare il suo personalissimo percorso artistico fatto di ricerca estetica ed affascinante soul, assecondando, per quanto possibile, la componente pop.  A Seat At The Table, questo il titolo del suo nuovo album, si rivela coerente con il personaggio che Solange oggi giorno rappresenta e si va a collocare su quel nuovo fronte musicale che già ospita i suoni e le opere di Kendrick Lamar e Frank Ocean o, da un punto di vista femminile, di FKA Twigs e M.I.A.
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L’album offre ben ventuno tracce, ma la metà di queste sono interludi. Ma attenzione, non sono semplici intermezzi: si tratta di vere e proprie storie raccontate, ora dai genitori di Solange, ora da personaggi carismatici, come Master P., chiamati a condividere le proprie  esperienze, i contrasti e la rivalsa della comunità afroamericana. Niente disprezzo e odio, ma solo voglia di affermazione e di successo.  Ed è quello che ha raggiunto Solange con questo A Seat At The Table, un album che si potrebbe descrivere come un concept album, un mixtape realizzato ad uso personale, senza potenziali singoli o canzoni dominanti. Una traccia unica divisa in capitoli eleganti, fluttuanti e dannatamente emotivi, da ascoltare dall’inizio alla fine. Ad introdurre Rise un saggio di modulazione ed elasticità vocale ineguagliabile. Si attraversa poi la delicatezza dei sintetizzatori di Weary, la modernità di Don’t You Wait, il limpido funky di Don’t Touch My Hair, per poi essere catturati da un capolavoro R&B come Cranes In The Sky, impreziosito dal rincorrersi di cori e da suoni d’altri tempi. Un salto temporale di vent’anni con le produzioni di Don’t Wish Me Well, mentre in Mad riesce a moderare un personaggio come Lil Wayne, a dimostrazione della sua capacità di scelta nelle collaborazioni, che oggi tornano utili come non mai. In Borderline Solange chiama in causa la cultura hip-hop di Q-Tip mentre per F.U.B.U. opziona The Dream e BJ The Chicago Kid. Per le produzioni si fa aiutare da mostri sacri quali Raphael Saadiq, Questlove e Troy Johnson. Se poi ai cori chiama una voce come quella di Tweet, l’esito non può essere che positivo.
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Coccolato dalla critica e protetto da un’aura di meritato rispetto, A Seat At The Table sta già facendo parlare molto di sé. Solange appare un’artista di estrema eleganza e classe, caratteristiche che se affiancate ai messaggi socio-culturali illustrati nelle sue canzoni non possono che obbligarci a trattare questo album con estreme responsabilità e curiosità. Le sonorità sobrie, intelligenti ed emotive di questo progetto sono ciò che di meglio la musica soul possa offrirci in questo periodo.
Simone Cazzaniga.

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