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Donald Byrd - Black Byrd (1973)

Donald Byrd – Black Byrd (1973)

“Black Byrd” del trombettista Donald Byrd: L’origine del sincretismo sonoro tra jazz e soul-funk due decenni fa

Abbiamo parlato, nel penultimo articolo, della contaminazione tra jazz e soul-funk, raccontandovi del progetto Buckshot LeFonque di Branford Marsalis. Oggi torniamo a parlare di questo sincretismo sonoro, ma tornando indietro di 2 decenni. Precisamente ci sposteremo verso il 1973, con l’album “Black Byrd” del trombettista Donald Byrd. Nato anagraficamente come Donaldson Toussaint L’Ouverture Byrd II, a Detroit il 9 Dicembre 1932, e deceduto a Dover (Delaware), il 4 Febbraio 2013, fa parte di quella schiera di musicisti jazz hard-bop che successivamente si sono spostati sul versante soul-funk con ottimi risultati e con prodotti di gran pregio. Con all’attivo collaborazioni con Herbie Hancock, Thelonious Monk, Sonny Rollins, nel 1969 ha dato una svolta al suo stile introducendo sonorità elettriche.

 

 

Questo suo suono prenderà meglio forma nel 1973, grazie al sodalizio con i fratelli Mizell (Larry e Fonce) e con l’album “Black Byrd”, tra i più venduti della Blue Note del periodo. Sappiamo quanto quest’etichetta sia sempre stata una garanzia per gli amanti del jazz, grazie a perle discografiche dal valore inestimabile. Ma anche durante gli anni ‘70 ha saputo deliziarci con gemme vicine al soul e al funk, di quelle che già da allora guardavano felicemente al futuro e che negli anni ‘90 faranno la gioia di molti artisti acid-jazz, neo-soul e hip-hop. Basti pensare alla flautista Bobby Humphrey, all’organo di Brother Jack McDuff, o a musicisti come Lou Donaldson, Grant Green, Bobby Hutcherson, tanto per fare degli esempi. Oggi focalizzeremo la nostra attenzione su questo disco di Donald Byrd, un lavoro che ancora oggi è capace di dare ottime lezioni di vero groove, grazie a brani come la title-track, dalle atmosfere poliziesche (molte colonne sonore dei poliziotteschi italiani anni ‘70 saranno influenzate dalle sonorità soul-funky del periodo), o al groove di “Love’s So Far Away”, che cresce a dismisura lungo la sua durata. Ottima anche “Slop Jar Blues”, che risente di un ineccepibile tappeto funky quasi wonderiano e di un cantato bluesy, ma anche il soul della finale “Where We Are Going?” non scherza in quanto a suoni e ritmi impeccabili. In tutto il disco la tromba di Donald Byrd si intreccia alla perfezione con il resto della sezione fiati e il flauto di Roger Glenn, presenza costante nel lavoro. E ci sono anche grandi nomi come Joe Sample con il suo piano elettrico e le chitarre di Dean Parks e David T.Walker, oltre che il basso di Winton Felder e la batteria di Harvey Mason. Tutto per circa tre quarti d’ora di groove allo stato puro, senza freni e capace di far volare altissimo l’ascoltatore grazie alle soluzioni armoniche offerte.

 

 

Come tutti i musicisti del suo periodo, quelli provenienti dal jazz più canonico, anche Donald Byrd non è stato risparmiato dalle critiche dei puristi, che hanno considerato  “Black Byrd” una sorta di tradimento. Ma la storia ha dato ragione al trombettista di Detroit, forte anche dell’influenza che questi musicisti hanno esercitato su artisti neo-soul negli anni a venire. Un esempio ci viene dato da Erykah Badu, che non mancherà di rendere il suo tributo a Donald Byrd con una sua versione di “Think Twice”, contenuta nell’album “Worldwide Underground”(2003). Dopo “Black Byrd”, il trombettista statunitense punterà più in alto con altre gemme soul-funky come “Street Lady”(1974), “Stepping Into Tomorrow”(1975) e “Places and Spaces”(1976), lavori che al giorno d’oggi suonano più che mai attuali. La Blue Note sin dai suoi tempi più remoti non ha mai smesso di stupire, il suo catalogo è uno scrigno ricco di meraviglie e tesori, non solo per quanto riguarda gli anni ‘50 e ‘60, ma anche per un decennio come i ‘70, con prodotti che col tempo sono finiti negli scaffali dei più accaniti collezionisti di vinile raro.

Francesco Favano

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