Il Dede indaga sul rapporto che lega i giovani di casa nostra allo studio della musica black.
A mio modesto parere non si tratta più di una galassia lontana lontana. Sono qui, sono tra noi e consapevoli o inconsapevoli seguono i dettami della forza. Al di là di coloro che hanno o hanno avuto la possibilità di avere un parente Jedi, cioè che suona, un sacco di giovani si stanno avvicinando al concetto ed alla libertà espressiva che solo la Musica Black può donare.
Come al museo di storia e scienze naturali siamo riusciti ad etichettare, imbustare ed infilare in delle ampolle piene di formaldeide ogni genere musicale espressivo si possa conoscere, rendendolo un cliché. Siamo riusciti, con la tecnica della goccia cinese, a rendere “piatta” ogni cosa analizzando ogni assolo, ogni intenzione, ogni ritmo, schiacciando così interi modi a ritmi, successioni di accordi, pause ed ogni altra fantastica diavoleria tecnica. Diciamocelo, abbiamo ucciso la libertà espressiva rendendola appannaggio solo dei solisti che spesso spiccano molto più per il ruolo e le frequenze dei loro strumenti che per una capacità oggettiva di esprimere; e non ho detto capacità di fare milioni di note perché in quello, troppo spesso, sono cinture nere terzo dan.
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I giovani accordano ancora oggi i loro strumenti su pezzi immortali datati 1972, bypassando a piè pari quello che è successo da allora ad oggi (solo nel 1973 usciva Innervision di Mr. Stevie Wonder e volendo qualcosina è successo). È proprio un problema culturale, l’impianto di insegnamento/divulgazione basa le proprie radici – molto spesso – su una cultura musicale radicata nella pronuncia bianca degli anni 60/70 fornendo ai giovani la tecnica e la conoscenza necessaria per suonare con una visione a senso unico. Ma non è responsabilità – la colpa è un concetto troppo religioso, induce dipendenza – degli insegnanti o dei media, più o meno improvvisati, più o meno stra-preparati, è un concorso dove chi apprende, oltre ai recettori accesi, dovrebbe essere anche curioso e soprattutto facilitato dal miliardo di strumenti a disposizione del sapere che sono oggi facilmente fruibili; potrebbe cercare, scoprire, leggere ed ascoltare, ASCOLTARE milioni di cose che gli/le cambierebbero la vita. Come ne Il Tagliaerbe, bisognerebbe sentirsi sempre come “una spugna asciutta”, apprendere sempre, cercare di assorbire quante più informazioni possibili e questo, secondo me, nella musica come nella vita… Aspetta, nella vita come nella musica… Ah, stessa cosa.
Dopo il 1959 Mr. Bill Evans espresse in televisione la bellezza e la libertà della musica creativa e dell’improvvisazione.
Nel 1959 uscì Kind of Blue.
Per avere tale padronanza è indubbio che la visione musicale che bisogna aver assorbito è incredibile, quasi gargantuesca, quindi penso che il “pianist extraordinaire” sia stato in grado di rendere “semplici” dei concetti che molti umani non riuscirebbero ad assorbire neppure in due vite. Ci sono dei passaggi obbligati per entrare nel mondo espressivo e libero della black music, bisogna volerlo e studiare, rimanendo LIBERI, ascoltare attuando un processo che visivamente potrebbe essere paragonato al passaggio attraverso un box disintossicante, quello proprio dei film di disastri batteriologici con sbuffi di gas e quant’altro, quel box dove l’eroe rischia di contagiarsi, in questo caso dai luoghi comuni, quotidianamente e per trovare l’antidoto deve proprio farsi in quattro.
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L’errore che spesso sento/vedo – anche se sono un emerito signor nessuno – è quello di fermarsi e non andare avanti nella ricerca, quello di pensare “eh, ma io so fare lo swing” o “eh, ma io suono sui dischi di James Brown” senza dare risalto a quello che c’è dietro a tutta quella espressione. Partiamo dal presupposto che proveniamo da culture differenti, non ci sono chiese metodiste nelle quali preghiamo un signore fra canti e balli e se accendiamo la TV troviamo signore con delle luci deformanti che ti raccontano per filo e per segno come cade una carrozzina dalle scale, come in una gigantesca Corrazzata Potemkin. Noi, volendo, siamo degli Indiana Jones. Dobbiamo armarci di cappello e frusta e ricercare, scavare in noi stessi, dando la propria visione, il proprio apporto.
Successe, questo successe!
Nell’immediato dopo-guerra si traducevano, si interpretavano, si dava il proprio contributo espressivo a delle musiche (black) non proprie nel nostro stivalico paese. E funzionò! Ma, come in tutti i prosegui delle fiabe, quelli che non si vedono, il principe azzurro finisce coll’essere sovrappeso e la principessa indossa bigodini fumando come una turca (se fossero due principi in sovrappeso o due principesse bigodinate sarebbe esattamente la stessa identica cosa). Uno sprazzo di libertà ci fu tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, quando le maglie dell’interpretazione divennero un pochino più larghe. Poi di nuovo baratro, la fusion. Meraviglia delle meraviglie, comprensibili-incomprensibili fanta composizioni, molte delle quali sterili, e quelle invece gravide lo erano grazie a coloro che le suonavano trasudando vissuto, storia, umanità, oltre alle note.
Il jazz, e in generale la musica black, sta diventando il nuovo rock, l’unico “posto” nel quale volendo c’è ancora spazio per essere se stessi, dove si possono lasciare gli ormeggi e navigare nel proprio personalissimo mare, lago, pozzanghera. Un posto magico dove tutti possono fare la differenza espressiva, dare la propria visione, santificando così il vero fondamento della black music: la libertà. Essere selettivi e curiosi, non fermarsi mai, chiedere, studiare, applicarsi scegliendo la strada che si reputa giusta frequentando, leggendo, ascoltando le cose che si reputano giuste.
E non tirare mai fuori il metro per misurarsi i Midi-chlorian.
Il Dede.
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